14.5.11

Fratelli d'Italia

Ebbene sì, posso dirlo: c’ero anch’io!
C’ero anch’io 50 anni fa a Torino, a festeggiare il centenario dell’Unità d’Italia.
Italia ’61: ancora qualche anno e, come un ciclone, il ’68 avrebbe cambiato molte cose, ma io, generazione post-bellica allevata a pane e retorica, non lo potevo immaginare!
Torino era la mia città, la più adatta a celebrare una ricorrenza così speciale: a Mazzini, Garibaldi, Cavour, Gioberti erano intitolate importanti vie del centro, l’enorme monumento a Vittorio Emanuele secondo, sul corso omonimo, era visibile da ogni prospettiva e sembrava galleggiare sulle chiome degli alberi.
Nella bellissima sala del Parlamento a palazzo Carignano sembrava ancora di sentir echeggiare il famoso discorso “non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti si leva verso di noi…”
Per rifare il look alla zona, come si direbbe oggi, era stata strategicamente e velocemente abbattuta una bidonville, chissà dov’erano ora i suoi abitanti, ma le cose brutte non si dovevano vedere, guai a pensare che non fosse tutto perfetto, bello.
Belli i padiglioni sul Po, attraversato per l’occasione da una piccola ovovia che, arrivata alla collina, offriva un panorama da cartolina illustrata, bellissime le lussureggianti aiuole fiorite, belle le bandiere che sventolavano da ogni balcone, e infine belli anche i volti di tutti noi, fratelli d’Italia, che ci aggiravamo orgogliosi nella vasta area della mostra, non più donne, uomini, bambini, ma ITALIANI, i migliori, come ci avevano insegnato a scuola, un popolo di artisti, eroi, santi, navigatori…
La seconda strofa del nostro inno nazionale, quella che quasi nessuno conosce, dice: “noi fummo per secoli calpesti e derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi.” Povero Goffredo Mameli, morto così giovane e così presto, senza poter vedere il suo sogno realizzato, senza sapere nulla dell’eroica spedizione dei Mille, degli affascinanti garibaldini dalle camicie rosse che, a rischio delle loro giovani vite ci avevano dato anche la Sicilia.
Ed era con il cuore pieno di italico orgoglio, senso di appartenenza alle stelle, che tornavo a casa con un’amica dopo aver visitato l’esposizione per l’ennesima volta.
Ma… che cosa c’era scritto su quel cartello bianco, affisso al portoncino di un anonimo palazzo di periferia, sui cui balconcini garrivano al vento le bandiere tricolori?
Cinque parole in stampatello maiuscolo: NON SI AFFITTA AI MERIDIONALI.
Cristiana Minardi, letto il 21 aprile 2011 a TBQ durante la serata di lettura condivisa Storie minime

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