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Sono finita qui a mondare i peccati del mio fallimento. Diploma con sessanta sessantesimi, laurea con centodieci e lode, dottorato di ricerca con borsa vinto a venticinque anni, un anno di studio a Copenhagen, un anno a Parigi, due lingue straniere scritte e parlate, diverse pubblicazioni - e il risultato è stata la mia prima convocazione in provveditorato, una mattina in cui settembre spargeva su Roma una luce ancora estiva, straziante: cinque ore di grida, crisi isteriche, ipotetici complotti, telefonate ai carabinieri e ai sindacati da parte di una massa di precarie pericolosamente vicine alla menopausa, e il ritorno verso la metropolitana con in mano il documento che attesta il mio primo incarico annuale come professoressa, mestiere che sia mia nonna che mia madre erano riuscite a fare con una semplice laurea sul curriculum, dei figli in arrivo, e, attorno, un mondo che considerava quel mestiere già un successo, per una donna.